Brigantaggio


Fra Diavolo a Cervinara.

Il 19 ottobre 1806 uno dei più famosi capimassa del 1799, il colonnello Michele Pezza, meglio conosciuto come “Fra Diavolo”, sostò insieme ai resti della sua banda nella frazione “Valle” di Cervinara. Braccati dal colonnello francese Sigismondo Hugo (padre del famoso scrittore Victor) Fra Diavolo e gli altri briganti superstiti attraversarono combattendo Terra di Lavoro, il Molise, il Beneventano, l’Irpinia fino a raggiungere la Valle Caudina. Qui, come abbiamo detto in una frazione di Cervinara, con un inganno (si fece arrestare dai suoi uomini) riuscì a disperdere gli inseguitori raggiungendo i monti del Partenio.

Il 29 e il 30 novembre del 1860 gli abitanti di Cervinara insorsero contro il governo piemontese, dando inizio al brigantaggio post-unitario del Partenio e della Valle Caudina. Ma Cervinara era già nota alle forze dell’ordine per i fatti seguiti al 1848. La stessa insurrezione napoletana del 15 maggio era stata organizzata a Cervinara da Nicola Nisco di San Giorgio del Sannio.

L’agitazione in Valle Caudina aveva assunto l’aspetto di una rivendicazione, portando ad un nuovo tentativo di appropriazione delle terre quel 10 settembre, fomentato da elementi borghesi al grido di “Viva il comunismo, Viva la repubblica, ci dobbiamo dividere le robe altrui, vogliamo dividerci i terreni”, accompagnato da colpi di fucile. Protagonisti ne erano i fratelli Verna, Pasquale Del Balzo, Giovanni Gallo, Alessio Vaccariello, Crescenzo Taddeo, Giuseppe Perone, Nicola Capparelli e Francesco De Marco. L’elezione di Bernardo De Bellis a capo provvisorio della locale Guardia Nazionale – ci ricorda Vincenzo Cioffi – aveva già provocato un aspro conflitto che il comandante della Polizia, Giovanni Sbordone, non aveva esitato a definire “guerra civile” nel rapporto del 9 aprile 1849.

Tutti elementi che sarebbero risultati scintille per il brigantaggio. Si cominciò con le piccole bande capeggiate da Andrea De Masi di Bucciano, più noto come Miseria, e quelle dei fratelli Giovanni e Tommaso Romano di Limatola, fino alla grande ammucchiata di decine e decine di uomini e donne che andarono ad ingrossare le file dell’esercito fuorilegge di Cipriano La Gala, il feroce criminale di Nola evaso dal carcere di Castellammare insieme al fratello Giona e ad altri detenuti, che contava oltre 500 seguaci.

L’intervento delle truppe garibaldine verso sera, aveva già fatto prendere la via dei monti ai promotori della rivolta. Non erano mancati i primi morti innocenti e 40 furono gli arrestati. In meno di un anno le comitive brigantesche erano cresciute in numero ed aggressività, saccheggiando di tanto in tanto i paesi a valle del Partenio.

I briganti erano soliti mandare un “biglietto di richiesta” ai galantuomini dei paesi della zona per avere armi, cibo e denaro. Pena: rapimenti, orecchie mozzate, gambizzazioni, uccisioni. Chiaramente chi spediva da mangiare alla banda doveva stare attento a non farsi scoprire finendo nella lista nera della Guardia Nazionale come manutengolo o favoreggiatore. Fu il caso di alcuni componenti la famiglia Cecere di Ferrari, località dove già erano stati uccisi Saverio Sorice e la moglie Gelsomina Cioffi e il figlio, che avevano aiutato la banda di Fuoco e Pace.

La GN effettuò anche degli arresti, come per Pasqualina Varrecchione, diventata druda del capobrigante Pico, o delle sorelle Moscatiello, alla contarda Grottola, drude di Fuoco, e di altri 8 manutengoli. In altri casi non mancarono delle scarcerazioni, come per Vincenzo Sacco, inizialmente accusato di essere un manutengolo della Banda Fuoco.

Le cose erano però peggiorate con l’arrivo di La Gala, nonostante i rastrellamenti di Carabinieri e Bersaglieri piemontesi. Il feroce capogrigante che si spostava indisturabato sui monti, muovendo richieste a destra e a manca, dalla Valle Caudina al Vallo Lauro Baianese. “Stimatissimo Signor Don Gaetano – scriveva La Gala ad un possidente firmandosi “Capo della Commitiva” – vi prego di mandarmi qualche cosa per questa oggi perché ci troviamo senza un grano perciò vi prego per titolo di carità, e potete consegnare alla presente. Si scoprì poi che quella lettera poteva essere falsa, avvalorando la tesi che altri malandrini, in nome dei briganti, incassavano soldi per conto proprio.

Dopo aver scorrazzato per il Vallo di Lauro, La Gala decise – male – di fuggire sulle montagne del Partenio. “Era la banda del Cipriano – scrive Carlo Guerrieri Gonzaga – cresciuta ben presto di parecchie centinaia di seguaci. Non v’era villaggio tra Caserta e Nola da un canto, Benevento e Avellino dall’altro, che non gli avesse fornito il suo contingente”. E dal Nolano, la banda si affacciò sui monti di Caserta per i poggi di Cancello, il monte Felino, il piano Majuri, i Cigli d’Avella e il Campo di Summonte. Airola, Arpaia, Arienzo, Cervinara, Montesarchio, San Martino… non ci pensò due volte ad attaccare i militi. 10 soldati morti dei due drappelli del distaccamento di Cervinara, al comando del Generale Pinelli con sede a Nola, furono il bigliettino da visita di La Gala.

Disfatta tragica anche per la Guardia Nazionale di San Martino, il 29 ottobre 1861, che vide perire un ufficiale e cinque uomini. Non mancarono gravi accuse all’allora sindaco Francesco Del Balzo per presunte responsabilità colpose nell’eccidio. Strage che precedette di poche ore l’arrivo dei nuovi Generali (Lamarmora sostituiva Cialdini a Napoli; Franzini, Pinelli a Nola) che portarono a Nola perfino una sezione di artiglieri di montagna e cavalleggeri di Lucca, con immediate perlustrazioni generali del 180 battaglione tra Cancello, Arienzo, Arpaia, Cervinara, Montesarchio, Benevento, insieme ai distaccamenti del 120 di linea.

Ma fu l’approssimarsi del generale inverno, il vero nemico. Autentici criminali – scrive Francesco Barra – brutale e rozzo Giona, assai più abile ed evoluto Cipriano, i due fratelli che vantavano gravissimi precedenti penali prima del 1860, non possono aspirare ad un movente politico, né sociale. Sarebbero rimasti insomma sicuramente in carcere se non avessero accettato la strumentalizzazione borbonica, in cambio della libertà, con l’avvento del nuovo Stato unitario, che gli aveva fornito protezioni e finanziamenti occulti.

Ma La Gala restava un criminale, un affiliato alla camorra. Un bandito urbano – conclude Barra – più che rurale; un camorrista, più che un brigante. Era comunque un furbo che prendeva continuamente in giro i soldatini piemontesi, scampando ai loro agguati in tutta la Valle Caudina, come quella volta che scapparono su per lo scosceso vallone di Cervinara, inseguiti dai bersaglieri, e poi giù, per il dirupo, lasciando vesti ed armi.

Quel giorno, per esempio, era stato ordinato alle guardie del paese di piantonare il burrone, ma al momento oppurtuno non vi si trovò nessuno, rinchiudendosi i militi nelle proprie case, mentre i briganti, durante la precipitosa fuga dopo il saccheggio, furono per poco tempo inseguiti solo dagli spaesati bersaglieri che non conoscevano la zona. Era il 14 dicembre 1861, il giorno dell’ultimo saccheggio.

La banda di La Gala, poche lune prima di essere annientata dai bersaglieri del Generale Franzini sul Piano Majuri, un pianoro fra monti di Avella e Cervinara, era riuscita a saccheggiare le frazioni di Castello, Joffredo e Ferrari. Il 18, infatti, fu sorpresa ed attaccata alla baionetta. Una quarantina i malandrini che rimasero a terra, qualche storico parla di 31 uomini uccisi sul piano Cornito. Cipriano, Giona e i superstiti riuscirono però a scappare a Valle, cercando scampo sul Taburno.

Ma la loro disfatta fu sancita tra Carvinara e Montesarchio, con un intervento del distaccamento del VI Fanteria, comandato da Gaetano Negri, futuro storico, senatore e sindaco di Milano. I due, ancora una volta, sciolta la banda, riuscirono a fuggire definitivamente, riparando nello Stato Pontificio, dove dilapidarono la ricchezza male acquisita (un’altra parte del bottino, abbandonata durante il fuggi-fuggi, sarebbe poi stata ritrovata appena qualche decennio fa, in un terreno privato, nel corso dello scavo di un pozzo, donando improvvisa ricchezza al fortunato.). Capito insomma che la partita era ormai persa, si diedero alla pazza gioia e ai divertimenti, mentre sulle montagne irpine non rimanevano a battersi che pochi disperati, destinati a cadere sotto i colpi della represssione.

Due anni più tardi decisero di riparare in Francia, non sentendosi sicuri più neppure a Roma, imbarcandosi a Civitavecchia sul piroscafo “Aunis”. Gli andò male e, il 18 luglio 1863, mentre la nave francese diretta a Marsiglia faceva sosta a Genova, furono arrestati, non senza conseguenze diplomatiche, seriamente compromesse tra Italia e Francia. Giona e Cipriano La Gala riuscirono a far parlare si se ancora per molti anni.

Il processo si svolse nel febbraio-marzo 1864 davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere, ed ebbe risonanza internazionale con la presenza della stampa estera. I fratelli La Gala vennero condannati a morte, mentre i loro compagni, Domenico Papa e Giovanni D’Avanzo insieme ad essi catturati sulla nave, se la cavarono chi con i lavori forzati, chi scontando una pena a venti anni.

Giusto per chiudere l’incidente diplomatico con la Francia, però, l’Italia dovette commutare la pena, degli ormai famosissimi briganti, con l’ergastolo.

Fonte (Dott. Cioffi Vincenzo)

18 dicembre 1831: “Fine della Banda La Gala”


Un giorno d’inverno come gli altri. L’abbondante nevicata caduta nei giorni precedenti aveva imbiancato le cime dei monti dei monti di del Partenio e di Avella fino al monte Maio e Fellino. Pianori, gole, valloni e mulattiere erano divenute inaccessibili o percorribili con estrema lentezza e pericolosità. Era, questa, l’occasione aspettata dal Generale Franzini della colonna mobile di Nola per sferrare l’attacco decisivo per sorprendere e distruggere la banda di Cipriano La Gala.

Cipriano La Gala aveva accampato l’armata partigiana, su un altipiano denominato “Chiano Maiuro”, (Piano Maggiore), sull’Appennino Campano tra la valle Caudina e l’Agro Nolano, ritenendolo “luogo sicuro rispetto ad altri”. La notevole quantità di boschi mulattiere valloni e anfratti naturali avrebbero permesso una precipitosa fuga dei “briganti” verso l’impenetrabile Appennino e il massiccio del Taburno. Ma quel giorno non andò così. Il 3° battaglione dei bersaglieri comandati dal Maggiore Robaudi, mosse da Nola all’alba per occupare l’altura dal lato Ovest, mentre una compagnia di guardie Nazionali Mobili avrebbe impedito la fuga a sud verso Baiano e Mugnano del Cardinale.

Il 18° battaglione del maggiore Melegari mossero da Arpaia, da Cervinara, da Rotondi e da Paolisi per raggiungere le cime dal versante Caudino a Nord. Due compagnie di Guardie Nazionali Mobili avrebbero chiusi altri due passi decisivi: Vallone di Forchia e Cervinara. L’abbondante nevicata chiudeva l’ultima via di fuga verso i monti di Avella e il Partenio ad Est. La neve fu nemica per la fuga ma divenne alleata nel rallentare l’attacco dei Bersaglieri. Solo alle ore 11 del giorno 18, tali forze conversero su piano maggiore, ma la banda se ne era frettolosamente allontanata.

“Sparsi qua e la si vedevano sacchi di pasta, recipienti e bottiglie di vino, ceste di carne, utensili di cucina, e fra giacigli e coperte qualche oggetto di vestiario. Ad ogni baracca e capanna si vedevano affisse dentro e fuori immagini di Madonne e di Santi”. La Banda, composta da circa 400 uomini (la leva del mese di novembre ne aveva accresciuto il numero), riuscì a sottrarsi all’accerchiamento e prese la via di San Martino dove non era stato ancora chiuso il passo dalla 2^ compagnia dei Bersaglieri. Ma la via di fuga era segnata, la presenza di militari e la neve la rendevano unica e senza alternativa. Continuarono ad allontanarsi lasciando per strada ogni carico, forse anche le armi, per uscire da quella trappola infernale.

Nonostante tutti gli sforzi non potettero sottrarsi allo scontro che avvenne in località “Cornito”, dove inaspettatamente saliva detta 2^ compagnia proveniente da San Martino. Lo scontro fu breve e violentissimo. Sul posto sopraggiunsero le compagnie passate per Piano Maggiore e presero la banda tra due fuochi. Sul piano Cornito morirono in combattimento 31 briganti. Col loro sacrificio arrestarono le forze Piemontesi permettendo al grosso dell’armata di riorganizzarsi. Il grosso si diresse con Cipriano verso il vallone di Cervinara. Trovarono il paese deserto. Sullo stradale per Montesarchio si imbatterono in un reparto di fanteria comandato dal tenente Negri dal quale vennero assaliti.

Riuscirono comunque a sottrarsi allo scontro e riparare in parte nel massiccio del Taburno, in parte nel Partenio. La banda risultava più che decimata. Tra morti e catturati aveva perduto 163 uomini. La stampa e le relazioni degli ufficiali riportarono l’episodio come una disfatta del brigantaggio nolano. Sappiamo bene invece che le bande furono più che efficacemente attive soprattutto negli anni successivi quando arrivarono le considerazioni del Ferrari e le relazioni del Massari sul brigantaggio, nonché le riflessioni del D’Azeglio e la famigerata legge Pica pubblicata il 15 agosto 1863.

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