Janare


Si dice che i nomi contengano già il destino di chi li porterà…allora mai nome fu più significativo per questa città nata sotto l’auspicio di un presagio negativo: Malventum fu in origine, ribattezzata Beneventum dai Romani a seguito della vittoria riportata sui Sanniti al termine della terza guerra punica. I fieri Sanniti che avevano combattuto per quasi sessanta anni, furono sottomessi alla potenza romana e da indipendenti e dominatori, furono privati della propria identità culturale. Nulla più rimase, se non vaghe tracce, del significato originario del nome della città sannita che rievocava, in un antico termine di origine osca, una terra adatta al pascolo e in prossimità delle acque.

La città di Benevento è famosa per la leggenda delle streghe. In realtà a Benevento e nella sua provincia tali misteriose creature non vengono chiamate “streghe” ma “janare” o “ianare” (si pronuncia allo stesso modo). Il nome forse deriva da Giano. Giano era il dio bifronte, con una faccia sul viso ed un’altra dietro la testa. Proprio per questa sua caratteristica – la capacità di guardare in avanti e all’indietro, di controllare chi entrava e chi usciva – era il dio delle porte di casa (ianua), il dio del principio, il dio del mattino. Il primo mese dell’anno, proprio in quanto dà inizio all’anno nuovo, venne chiamato Ianuarius in suo onore. Secondo questa teoria, le janare si chiamerebbero così perché entrano nelle abitazioni attraverso la porta di casa (in latino ianua, -ae) il cui dio protettore è appunto Giano. Un’altra tradizione vuole che il termine janara voglia dire “seguace di Diana” poiché la dea Diana, venerata dai Romani, corrispondeva alla Artemide dei Greci, identificata con Ecate. In epoca romana si era diffuso per un breve periodo a Benevento il culto di Iside, dea egizia della luna; l’imperatore Domiziano aveva anche fatto erigere un tempio in suo onore. Questo culto aveva già insiti alcuni elementi inquietanti, a cominciare dal fatto che Iside faceva parte di una sorta di Trimurti: veniva identificata con Ecate, dea degli inferi, e Diana, dea della caccia. Inoltre queste divinità avevano rapporti con la magia. Il culto di Iside sta probabilmente alla base di elementi di paganesimo che perdurarono nei secoli successivi: le caratteristiche di alcune streghe sono ricollegabili a quelle di Ecate, ed inoltre lo stesso nome con cui viene indicata la strega a Benevento, janara, sembra possa derivare da quello di Diana. Ecate era rappresentata con tre teste e tre corpi (corrispondenti ad Artemide, Persefone e Demetra – o Selene). Persefone (la romana Proserpina) è la dea del mondo sotterraneo e proprio in virtù di tale identificazione, Ecate regnava anche sui demoni malvagi e sulle tenebre e vagava nottetempo spaventando gli uomini.

“Gioco di Diana ” è definito, in molti testi, il corteo di streghe , stregoni e spiriti infernali di cui si aveva notizia attraverso le deposizioni delle imputate di stregoneria. Altro nome di esso è “sabba”, forse da Sabazio, o Bacco, in onore del quale si celebravano riti orgiastici. Infatti anche nel consesso stregonesco vi era una forte componente sessuale. Diana è chiamata nei processi “Signora del gioco”, dove “gioco” traduce il latino ludus, nel significato di “luogo dove s’impara” o anche di “passatempo dilettevole”, visto che in queste riunioni si ballava e si cantava.

Diana era anche chiamata “Cariatide”, in un villaggio dell’Arcadia le cui fanciulle danzavano in onore di Diana/Artemide e quelle che noi oggi chiamiamo “Cariatidi”, le statue –elementi architettonici portanti- erano originariamente scolpite in legno di noce che in greco è detto Karyon e la cui radice, Kar, si trova nella parola Kara che significa testa…e i gherigli delle noci che hanno una somiglianza impressionante con il cervello umano, potrebbero rappresentare proprio l’alterazione psichica delle danzatrici…

Non solo, oggi la scienza ha dimostrato le mille proprietà curative delle noci, confermando la presenza della juglandina, la sostanza tossica che trasuda dalle foglie ed è in grado di provocare la morte di molte piante che crescono nelle vicinanze, spiegando così anche la presenza solitaria e fiera dell’albero, ma antiche leggende narrano di persone diventate pazze solo per essersi addormentate all’ombra di un noce, o di essersi svegliate con febbri alte. Le noci sono donate nelle fiabe dalle fate perché l’eroe vi trovi oggetti magici, le noci curavano le crisi epilettiche, le noci potevano trasformarsi, se sapientemente preparate, in veleni mortali o assorbirne la tossicità. La decozione delle foglie usate per iniezioni vaginali serve alla cura della leucorrea e per lozioni nelle ulcere scrofolose. I cataplasmi di foglie fresche guariscono le piaghe e le ulcere. L’olio di noce, la decozione del mallo, sono antiemintici (favoriscono l’eliminazione dei vermi intestinali). Le foglie secche e poi decotte sono usate per lavature di tutte le mucose; le pennellature sono utili per le afte delle tonsille. Numerose sono le applicazioni tramandateci dagli Antichi: le noci unite al cibo con ruta pestata li trasforma in veleni letali, ma se poste fra funghi o altri cibi velenosi, ne assorbe ed estingue la tossicità. Aiutano ad espellere i vermi, unite a cipolla, sale e miele. Le ceneri poste sull’ombelico sedano i dolori. La corteccia di noce bruciata, e tritata, mescolata al vino e all’olio diventa una lozione lucidante per capelli ed elimina l’alopecia nei bambini. Con un pò di miele e ruta la cenere della corteccia spalmata sui seni ne lenisce le infiammazioni, lo stesso avviene per le carie dentarie.

Janara è il termine comune nella nostra Cervinara per indicare la strega e lo si trova anche nella variante ghianara. La semiconsonante iniziale è l’evoluzione naturale del nesso latino \di\, come nel caso di diurnum Þ juorno. Pertanto il termine non viene da ianua, in cui la \i\ evolverebbe in \g\ (cfr. Ianuarius Þ Gennaro), ma da dianaria o dianiana, aggettivo derivato da Diana , equivalente a “seguace di Diana”. L’antichissima divinità italica, dea federale dei Sanniti e protettrice della plebs romana, è chiamata da Cicerone dea della caccia, della luna e degli incantesimi notturni (Cic. De nat. deor., 2, 68, sgg.).

Orazio parla dei tria virginis ora Dianae (i tre volti della vergine Diana ) o di Diana triformis (Diana triforme, cfr. Hor, Car., 3, 22, 4)

Virgilio conferma tale aspetto quando parla della dea che è Luna in cielo, Diana in terra, Ecate nel mondo infernale (Verg., Aen., 4, 511.b)

L’idea che le janare fossero donne incapaci di procreare, è probabilmente il risultato della mescolanza di componenti popolari e clericali che ha confuso nel tempo la figura della janara con quella della strega. La strega, parola che etimologicamente deriva da strix, uccello notturno, strige, ha un’altra storia e altre origini: credute responsabili di infanticidi, nella mitologia babilonese streghe sono le “vergini senza latte” che si uniscono senza potere diventare madri rappresentando la sessualità infeconda e lussuriosa, nella cultura ebraica streghe sono le discendenti del demone femminile Lilith (nominata anche nelle profezie escatologiche di Isaia, 34,14) nuda dal busto in su il cui corpo termina con una coda di serpente. E il serpente era l’animale totemico dei longobardi che adoravano una vipera d’oro dalle due teste chiamata Anfesibena.

Le janare sono figure caratteristiche della civiltà contadina. Nella tradizione, esse erano fattucchiere in grado di compiere malefici ed incantesimi, di preparare filtri magici e pozioni in grado di procurare aborti. Tuttavia non si conosceva l’identità delle janare: esse di giorno potevano condurre una esistenza tranquilla senza dare adito a sospetti. Di notte, però, dopo essersi cosparse le ascelle (secondo altri il petto) di un unguento magico, esse avevano la capacità di spiccare il volo lanciandosi nel vuoto a cavallo di una granata, cioè una scopa costruita con saggina essiccata. Nel momento del balzo, pronunciavano la frase:

« Unguento unguento
mandame a la noce di Benivento
supra acqua et supra ad vento
et supra ad omne maltempo. »

(Formula magica che molte donne accusate di stregoneria riferirono durante i processi)
Sott’a l’acqua, sott’a ‘r vient, sott’a la noc d’ Bnvient
(sotto l’acqua e nel vento, sotto il noce di Benevento)

(qualcuno ha avanzato l’ipotesi che il misterioso unguento fosse una sostanza allucinogena. In tal caso alcune delle storie fantastiche che si raccontano sarebbero nate dalle allucinazioni vissute delle persone che facevano uso di tale unguento). La figura della janara appartenente al patrimonio folclorico Gallese, si differenzia dalla la strega quale figura letteraria confezionata già in età classica, ma soprattutto moderna, con caratteristiche andate via via perfezionandosi e configurate in un repertorio ben consolidato, grazie agli scritti di esponenti della cultura clericale dal Medioevo in poi, i quali, attraverso un lungo processo, ne selezionarono gli aspetti discriminanti, utilizzando materiale dalla provenienza più varia: racconti popolari; superstizioni locali; mitologia classica, ebraica, nordica; inchieste giudiziarie, verbali di processi, fino alla codificazione, sistematica ed accreditata dall’autorevolezza degli scrittori, della figura della strega secondo una tipologia precisa.

La janara è una figura anche della tradizione popolare e come tutti gli esseri magici, ha carattere ambivalente: positivo e negativo. Conosce i rimedi delle malattie attraverso la manipolazione delle erbe, ma sa scatenare tempeste. Nella coscienza popolare non si associa la janara al diavolo, ella non ha valenze religiose, ma solo magiche. Oltre alle janare vi sono altri tipi di streghe nell’immaginario popolare. La Zucculara, zoppa, infestava il Triggio, la zona del teatro romano, ed era così chiamata per i suoi zoccoli rumorosi. Vi è poi la Manalonga (=dal braccio lungo), che vive nei pozzi, e tira giù chi passa nelle vicinanze. La paura dei fossi, immaginati come varchi verso gli inferi, è un elemento ricorrente. Infine vi sono le Urie, spiriti domestici che ricordano i Lari e i Penati della romanità.

La natura incorporea delle janare, faceva sì che potessero entrare nelle abitazioni penetrando sotto le porte, come un soffio di vento, oppure penetrando dalle finestre come un lieve spiffero. Per evitare che esse potessero entrare, dietro alle porte e alle finestre venivano appesi sacchetti di sale o scope. La tradizione vuole che la janara, prima di entrare in casa, dovesse contare tutti gli acini di sale o tutti i fili o le fibre che formano la scopa. La ianara, così, era costretta ad espletare il compito ma nel frattempo sopraggiungeva l’alba e la ianara era costretta a ritornare nella propria abitazione. la scopa per il suo valore fallico, oppone il potere maschile e fertile a quello femminile e sterile della janara; i grani di sale sono portatori di vita, poichè un’antica etimologia connette sal (sale) con Salus (la dea della salute)

I malefici che una janara poteva provacare erano diversi. La ianara poteva provocare aborti o essere la causa di infertilità, poteva entrare di notte nelle abitazioni e “torcere” i bambini, facendoli piangere per il dolore ed a volte causando la loro deformità. Le ianare erano anche responsabili della sensazione di “oppressione” sul petto che a volte si avverte mentre si giace supini – come se qualcuno con le proprie mani esercitasse una pressione sul nostro sterno. Questa sensazione di oppressione a volte è accompagnata dalla impossibilità di gridare o di chiedere aiuto. Le vecchine spiegano tali sensazioni con la solita frase, in cui riecheggia una saggezza antica: “Sono le ianare che ti premono”.

Le persone del popolo erano impressionate dai racconti sulle janare. Quando in un gruppo di persone che si intrattenevano a parlare in qualche vicolo, qualcuno pronunciava la parola “ianara”, immediatamente le donne alzavano le mani al cielo ed esclamavano la frase “oggi è sabato”, che sembra avesse un valore scaramantico.

Sino agli inizi degli anni Sessanta, era in uso in alcune zone interne del sud avvolgere i neonati nel “fascione”. Esso era costituito da strisce di stoffa avvolte attorno al corpo del bambino allo scopo di farlo crescere “diritto”. Si pensava, infatti, che le ossa ancora in formazione dei neonati, se non tenute diritte durante i primi giorni di vita (di soliti i primi 30-40 giorni), avrebbero potuto presentare delle malformazioni. Ci è stato raccontato che alla fine degli anni ’40, un bambino dormiva nel letto matrimoniale dei genitori, tra il padre e la madre.

Era nato da poche settimane ed ancora portava il “fascione” (il suo corpo era completamente avvolto nelle bende, ad eccezione della testa). Inspiegabilmente il mattino seguente il bambino fu trovato sotto il letto ed incominciò ad avere forti dolori allo stomaco. La spiegazione fu che “le ianare gli avevano succhiato il liquido dallo stomaco”. Per farlo guarire, gli fu dato da bere del latte particolare.

Le ianare erano conosciute anche per i dispetti che facevano ai contadini, manomettendo i loro strumenti di lavoro, facendo marcire le loro provviste. Alcuni contadini assicurano che di mattina, recandosi nella stalla, trovavano i cavalli sudati (si racconta che a volte succedesse lo stesso con le mucche) come se avessero cavalcato per tutta la notte; a volte i crini delle loro criniere erano raccolti in numerose treccine. Ovviamente la responsabilità di tali prodigi, veniva attribuita alle janare.

Si racconta che una notte un marito si accorse che la moglie si era alzata dal letto. L’uomo di nascosto seguì la donna spiando tutto ciò che ella faceva. Vide la moglie afferrare un vasetto contenente un misterioso unguento, cospargersi il corpo con quell’impasto e buttarsi nel vuoto dalla finestra, prendendo il volo. Resosi conto, quindi, che la moglie era una janara, il marito sostituì l’unguento magico della moglie con del semplice olio che tuttavia aveva lo stesso aspetto. Di lì a pochi giorni, la janara si alzò nottetempo e, preso nuovamente il solito vasetto, si cosparse il corpo dell’unguento contenuto nel vasetto, quindi si buttò dalla finestra. Quella notte, però, non prese il volo ma precipitò a terra e morì.

Questa storia l’abbiamo sentita raccontare dalle vecchiette ma probabilmente deriva da un poemetto napoletano ottocentesco autore è un protomedico beneventano Pietro Piperno nel suo saggio “Della superstitiosa noce di Benevento” (1639, traduzione dall’originale in latino “De Nuce Maga Beneventana”) fa risalire le radici della leggenda delle streghe al VII secolo. La storia racconta che un marito scoprì che la propria moglie era una ianara. Le rivelò ciò che aveva scoperto e le chiese di essere condotto al Sabba per poter partecipare anch’egli alla riunione di tutte le janare. Il sabato seguente, la moglie janara condusse il marito al Sabba che si celebrava sotto un grande noce. Lì erano raccolte tutte le ianare del mondo – secondo alcuni erano circa 2.000. Nel convegno malefico, si mangiava e si beveva.

L’ingenuo marito, notando che il cibo era sciapito, chiese del sale, ma appena ebbe condito col sale la pietanza che stava mangiando e l’ebbe assaggiata, il banchetto notturno che si trovava dinnanzi a lui scomparve improvvisamente. Egli restò isolato nella campagna, in un luogo a lui sconosciuto. Il mattino seguente incontrò un contadino e gli chiese dove si trovassero. Il contadino gli rispose: “alle porte di Benevento”.

Il luogo prediletto per prendere il volo era il Ponte Janara, costruito sopra il Torrente Janara. Il corso d’acqua nei secoli ha scavato una profonda fenditura nelle rocce. Le due rive scoscese sono dette “Coste Janare”. Il ponte fu fatto saltare in aria dai Tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale ma fu successivamente ricostruito. In fondo alle coste Janara, si trova un grande masso sotto il quale l’acqua che scorre ha creato un piccolo lago. In questo lago si creano inaspettatamente dei gorghi che risucchiano tutto ciò che si trova in acqua. Questo vortice poi scompare improvvisamente, così come è apparso. Il suo nome è “r’ wurv d’ ‘r nfiern”, cioè il “gorgo dell’inferno” e secondo la tradizione esso sarebbe un passaggio attraverso il quale si può discendere agli Inferi, come l’Averno.

L’ubicazione del noce di Benevento è controversa, si suppone sia quella dello Stretto di Barba, una gola che si incontra sulla strada per Avellino più precisamente ad Altavilla Irpina costituiva un passaggio obbligato tra Benevento ed Avellino: vi passava la strada di collegamento fra i due capoluoghi, puo assorbita dalla Statale 88, definita la Strada Stregata. Al km 54 infatti, proprio nel territorio di Altavilla, si sono avute continue interruzioni, almeno in tre diversi periodi (il più lungo della durata di sette anni): qui i misteri dello Stretto di Barba affiorano dalla folta vegetazione bagnata dal fiume Sabato. Era questo il luogo dove si radunavano le Streghe per celebrare i loro riti magici.

Secondo altri ancora in una località chiamata “Voto” (poiché i Longobardi sotto il noce facevano dei voti o li scioglievano). Secondo la tradizione, le janare si davano convegno sotto il noce di Benevento la notte del sabato. Sotto i rami di tale immenso albero – che aveva la caratteristica di essere sempre verde, in ogni stagione – celebravano i loro riti orgiastici congiungendosi con spiriti e demoni che prendevano spesso la forma di galli o di caproni. Le ianare, tuttavia, dovevano tornare alle proprie abitazioni prima del sorgere del sole e prima del suono della campana che annunciava l’inizio di un nuovo giorno. La loro natura era particolare. Quando di notte si trasformavano, non erano semplici creature notturne in grado di volare, ma acquistavano “la consistenza del vento”, diventando di natura volatile. Il modo in cui queste entità venivano percepite dall’immaginario popolare, forse deriva dal fatto che le colline che circondano Benevento sono spazzate da venti incessanti. Il vento infatti, anche se non originariamente, forse ha qualcosa a che fare con la stessa etimologia del nome “Benevento”. Si racconta anche che le janare preferissero radunarsi nelle sere di tempesta, quando il vento soffia impetuoso e la pioggia cade incessante, mentre le tenebre, squarciate dai lampi delle folgori, lasciavano scorgere le orripilanti sembianze di quelle donne demoniache che a cavallo delle loro scope, volavano in direzione del noce di Benevento. Le sensazioni che la leggenda delle janare inducono, si possono cogliere nella celeberrima opera “Una Notte sul Monte Calvo” di Modest Mussorgsky (sinfonia utilizzata anche per commentare alcune scene nel film di animazione “Fantasia” di Walt Disney). Secondo la tradizione, l’autore compose la sinfonia dopo aver soggiornato a Montecalvo Irpino, ospite della duchessa Maddalena Pignatelli, la quale era figlia di Pietro Fesenko, consigliere dello zar Nicola II. Si dice che Mussorgsky restò molto colpito dall’atmosfera che si respirava a Montecalvo Irpino, suggestionato dai luoghi, dalla storia, dalle leggende delle streghe che prendevano il volo per ritrovarsi ai piedi del noce di Benevento dove celebravano il loro sabba. Se si ascolta la sinfonia e si chiudono per un attimo gli occhi, sembrerà di vedere le streghe volare, volteggiare attorno al noce, in una corsa spasmodica a cavallo della loro scopa, sino a quando l’arrivo del mattino, salutato dal suono delle campane, non dissolve le tenebre sciogliendo allo stesso tempo la riunione demoniaca. La leggenda del noce di Benevento risale al VII sec. d.C. Si narra che i Longobardi, pur essendo stati convertiti al cristianesimo, continuavano a conservare delle usanze pagane e ad adorare idoli che facevano parte del loro bagaglio di tradizioni ataviche, erano soliti celebrare un rito guerriero propiziatorio in onore di Wothan, padre degli dèi. In particolare si racconta che adorassero la Vipera, sia in forma di idolo d’oro, che serbavano nelle proprie abitazioni, sia appendendo un serpente morto ad un albero: in questo caso, i Longobardi passavano sotto il serpente morto e gli toccavano la testa come segno di deferenza. Secondo alcuni la Vipera che essi adoravano, aveva due teste, secondo altri era alata. Sicuramente il culto pagano dei barbari si innestava sul culto di Iside, già presente a Benevento dove sorgeva un tempio dedicato alla dea egizia. Iside, infatti, era una divinità in grado di controllare i serpenti. A quanto sembra, i Longobardi appendevano anche la pelle di un animale ai rami del noce e poi, in groppa ai cavalli con la parte anteriore del corpo rivolto verso la coda dell’animale, cavalcando velocemente, in una specie di “quintana”, dovevano strappare con un’arma dei brandelli della pelle appesa all’albero, tessuti organici che essi poi mangiavano. Il noce fu fatto tagliare da San Barbato. Si narra tuttavia che l’albero, anche se tagliato, sia rispuntato più volte nello stesso luogo.

San Barbato (nato nel 602 e morto nel 682) fece in modo che il noce di Benevento fosse tagliato. I Longobardi, tuttavia, continuarono a conservare le proprie usanze pagane. Quando Benevento venne assediata dalle truppe bizantine di Costante II, San Barbato assicurò la salvezza a Romualdo, che era a capo dei Longobardi di Benevento, a condizione di non adorare più la Vipera. Romualdo promise che i Longobardi avrebbero abbandonato il culto. Le truppe di Costante II si ritirarono e così Romualdo fu salvo e fece nominare San Barbato vescovo di Benevento. Tuttavia Romualdo continuava a conservare in casa, nascostamente, una vipera l’oro. San Barbato riuscì a farsi consegnare la vipera d’oro da Teoderada, la moglie di Romualdo. Fuse l’oro e ne fece un calice per celebrare l’eucarestia. Ma questo non servì a purificare il luogo dal male. Le riunioni delle streghe resistettero nei secoli, tanto che noi ne possiamo trovare testimonianza anche nel periodo dell’Inquisizione fino al 1600. Nella primavera del 1430 venne bruciata come strega una certa Teresa, abitante presso Pesco Sannita. Nella interminabile sentenza fatta redigere dal giudice inquisitore, campeggiano filastrocche contro gli spiriti e i dolori corporali, confessate dalla stessa Teresa sotto le ripetute torture che accompagnavano l’interrogatorio. Teresa confessò davanti al giudice di essersi più volte unta di grasso d’avvoltoio, sangue di nottola e sangue di bambini lattanti. Teresa invocava il demonio Lucibello, il quale le appariva in forma di caprone, la prendeva in groppa e, trasformatosi in mosca, la conduceva velocemente al noce di Benevento. Confessioni, queste, estorte con i dolori terribili inflitti dalle torture della Santa Inquisizione. Probabilmente Teresa considerava il rogo —pena certa cui sarebbe andata incontro— meno doloroso di quelle terribili torture, cui pose fine con le sue confessioni. Potrebbe farci credere che Teresa fosse un’entità soprannaturale, capace di apparire e scomparire agli occhi degli esseri umani. Dagli atti del processo intentato contro Teresa, emerge l’utilizzo di parti umane per la preparazione dei sortilegi. Teresa confessò di aver sottratto, alle sue vittime, i capelli, e i peli pubici, e di averli impastati con altri elementi, come la cera, sino a formare figure che simbolizzavano l’affatturato, che poi bruciava o trafiggeva. L’aneddotica su Teresa è limitata e frammentaria. Sappiamo, ad esempio, che una notte, recatasi al sabba, sulla via del ritorno era stata colta dall’alba. Spaventato dalla luce solare, il demone accompagnatore l’abbandonò sulla strada. Il demone scomparve in una nube fluorescente, che lentamente si dissolse al contatto dei raggi solari. Teresa non aveva più la protezione e l’appoggio del suo amante e accompagnatore. Era rimasta sola alla mercè del sole nemico. Cadde a terra, e in breve tempo si trovò quasi in fin di vita. Il sentiero era distante dal centro abitato. Il sole dovette salire alto nel cielo, prima che un viandante si accorgesse del corpo di Teresa steso a terra. Il povero contadino, pronto a soccorrere Teresa, nemmeno immaginava potesse trattarsi di una strega. L’aspetto piacevole del viso, il corpo ancora giovane e attraente, la facevano rassomigliare a una normale, innocente creatura. L’uomo la raccolse, era leggera, la condusse a casa propria, e qui la curò. Due giorni e due notti stette al capezzale del letto, mentre Teresa stentava a rinvenire. Quando finalmente ella si destò, il contadino iniziò a farle un mucchio di domande. La sua curiosità, essendo un uomo solitario, lo portava a farle domande di tutti i tipi, per sapere chi fosse quella bella creatura che s’era ritrovato tra le mura della propria casa. Ma Teresa sfuggiva a quelle domande, trovava ogni volta la scusa per cambiare argomento. Non voleva nuocere al suo salvatore, e per questo non poteva rispondere alle sue domande. Se l’avesse fatto, il contadino non sarebbe sopravvissuto dopo aver ascoltato le parole di Teresa. Ma l’uomo era curioso, e la sua insistenza fu talmente snervante per Teresa, che fu costretta a raccontargli del luogo da cui, la notte prima, ella stava rincasando. Il racconto fu fatale al contadino, perché di lui non si seppe più niente. Di quest’uomo furono solo ritrovati i vestiti sul bordo di un sentiero poco battuto, vicino a un cimitero.

E così in terra beneventana vissero alcune delle streghe più famose del mondo: la Maga Alcina (la maga di cui parla Ariosto) che operava nel paese di Pietra-Alcina (Pietrelcina) o la sventurata Bellezza Orsini processata dal santo uffizio di Roma nel 1540 che insegnava, a volare: “Unguento unguento, portace alla noce di Benevento, per acqua e per tempo e per ogni maltempo” …Stremata dalle torture, Bellezza Orsini eviterà il rogo: si uccise in carcere, colpendosi ripetutamente la gola con un chiodo. Nella terra beneventana vivevano ed operavano alcune tra le streghe più famose del mondo: Violante da Pontecorvo, la Maga Menandra, che abitava nella zona conosciuta oggi come Grotta Menarda, la Boiarona, la quale aveva legato dei demoni alle noci, anche la Strega Gioconna era solita fare questi malefici. Ma vi è, anche la storia di Matteuccia da Todi, accusata di essere “pubblica incantatrice, fattucchiera, maliarda e strega”. Ella confessò l’uccisione di numerosi bambini innocenti, oltre al fatto che, con altre streghe, si recava presso il noce di Benevento. La donna, cuore di cagna, così Omero riferito ad Elena (Il. Vi 356), ad Artemide, cagna spudorata (Il. VIII 423), ingannatrice, fallace, fraudolenta, irresponsabile di fronte alla forza prepotente di un demone come Eros…la metà del cielo, non amata dai Greci, ma temuta, e peggio, rifiutata. La donna, affermava Freud, è insieme alla religione, il primo grande mistero inventato dall’uomo, tanto più pericoloso quanto più segreto, e in questa ottica, la strega, ombra e potenza primitiva, quando “appare”, nella leggenda confezionata nel Medioevo, appare come una isolata, donne anziane malviste per vari motivi o giovani donne ripudiate e non più vergini, curatrici che operano all’ombra e frequentate da altre donne perché solo a loro possono rivolgersi di nascosto, per partorire, per abortire, per curare le malattie, e in un mondo pieno di orrori come quello medievale, la strega diventa un prodotto della disperazione del popolo.

Roland Barthes lo scrittore e semiologo francese (1915-1980) affermò che le culture creano emarginazione, devianze e streghe proprio perché, rappresentino una funzione anti istituzionale che il potere può sentirsi in diritto di utilizzare per giustificare azioni repressive. Così tutto quello che non combacia con il potere, soprattutto ecclesiastico, diviene eresia, opposta all’accettazione indiscussa dell’insegnamento della Chiesa. E anche la medicina esercitata sotto la sorveglianza della Chiesa si rivolge al genere maschile perché l’idea della donna è “naturalmente” legata alla sofferenza e al sacrificio. Così i sortilegi, la conoscenza della natura, la conoscenza del corpo, la consapevolezza del sé e la capacità di potenziarlo attingendo a forze antiche quanto la terra, diventano per la donna/janara/strega canto di liberazione e scoperta di una nuova esistenza.

Paracelso nel 1527 dichiarava che tutto ciò che conosceva della medicina l’aveva appreso dalle streghe e forse per mille e più anni, i soli medici del popolo sono state queste donne.

E qualcuno certo rabbrividì quando nel 1315, l’italiano anatomista Mondino de’ Luzzi, aprì e sezionò una strega. Forse qualcuno cadde in ginocchio, qualcuno chiuse gli occhi, e qualcuno continuò a chiamare quel cuore strappato e mostrato, trofeo di sangue e pregiudizi, solo “cuore di cagna”. Le persecuzioni sulla base di soli pregiudizi sono storia dei nostri giorni. La caccia alle streghe è sempre in atto, perchè la paura crea sempre inquisizione.

Francesco Redi (letterato e scienziato fiorentino, 1626-1697) in una lettera “giocosa” a Lorenzo Bellini (di cui ci parla Cifaldi in un brano del 1883 contenuto nel libro “Benevento e i Sanniti”, ed. Pierro, 1996, collana Monumenti e Miti della Campania felix, supplemento a Il Mattino) parla di un gobbo che viveva a Peterola. Un bel giorno un altro gobbo, suo conoscente, era ritornato da un viaggio senza presentare più la sua deformità. Interrogato sulla sua guarigione, spiegò che una notte, avendo perso la strada, si era ritrovato presso il noce di Benevento attorno al quale satiri, demoni, streghe e stregoni ballavano e cantavano. Una strega gli si era avvicinato e lo aveva invitato a ballare. Egli aveva dimostrato tanta leggiadrìa nella danza che le creature infernali presenti al convegno, avevano deciso di togliergli la gobba che portava sulla spalla. Il gobbo di Peterola, ascoltata la storia, di nascosto si mise in cammino in direzione di Benevento in cerca del famoso noce.

Finalmente giunse al luogo in cui si celebrava il sabba ed anch’egli trovò quelle creature infernali che danzavano e cantavano attorno al noce. Una di quelle creature, gli si accostò e lo invitò a ballare. Il gobbo di Peterola accettò di buon grado di prendere parte alle danze ma i suoi movimenti risultarono essere goffi e sgraziati. Le creature infernali che danzavano, allora, disgustati dai movimenti tutt’altro che eleganti del gobbo di Peterola, decisero di attaccargli sul petto la gobba che avevano rimosso dalla schiena del gobbo che avevano guarito. Così il gobbo di Peterola tornò a casa con due gobbe: una sul torace e l’altra sulle spalle.

Johann Wier un medico razionalista difensore delle streghe, cercò di dissacrare le credenze demoniache sulle streghe, riportando il discorso su un piano clinico-naturalistico, si perde nei tempi della Santa Inquisizione, della caccia alle streghe, considerate -dal Wier- soltanto delle povere sofferenti, donne affette da melanconia e non da possessione diabolica. Il tentativo —in parte riuscito— del Wier, fu di portare la ragione su un terreno nel quale regnava l’irrazionalità e la barbarie. Anche il movimento femminista, in epoche più recenti, si è occupato del problema: secondo la femminista Barbara Ehrenreich, molti autori stimano che di streghe ne siano state processate e uccise a milioni. John Laurence Pritchard afferma che “fra il quindicesimo secolo e gli inizi del diciottesimo, furono messe al rogo alcune migliaia di streghe sventurate, e tutte in base alla confessione da esse stesse resa, di norma, sotto tortura”. Non sono mancati, nel periodo di quella caccia scellerata, i vanti personali, come quello di un giudice di Nancy, che asseriva di aver portato al rogo, in soli sedici anni, 800 fattucchiere. L’Inquisizione indirizzava più facilmente le sue accuse verso il sesso debole. Le persecuzioni delle streghe possono considerarsi iniziate con le prediche di San Bernardino da Siena, che nel XV secolo predicò aspramente contro di loro, con particolare riferimento a quelle di Benevento. Spesso egli le additava al popolo come responsabili delle sciagure, e senza mezzi termini affermava che dovevano essere sterminate.

Un’ulteriore spinta alla caccia alle streghe venne data dalla pubblicazione, nel 1486, del Malleus maleficarum, che spiegava come riconoscere le streghe, processarle ed interrogarle efficacemente tramite le più crudeli torture. In questo modo, tra il XV e il XVII secolo furono estorte numerose confessioni di supposte streghe, le quali più volte parlano di sabba a Benevento. Si ritrovano elementi comuni come il volo, pratiche come quella di succhiare il sangue dei bambini, tuttavia si trovano discrepanze circa, per esempio, la frequenza delle riunioni. Nella massima parte dei casi le “streghe” erano bruciate, mandate al patibolo o comunque punite con la morte con metodi più o meno atroci. Nel Malleus Maleficarum (opera di due inquisitori domenicani, Heinrich Kramer e Jakob Sprenger) libro adottato dagli inquisitori come sicura guida alla loro spietata caccia, il trattato che ebbe tredici edizioni, per oltre due secoli venne considerato il manuale perfetto e unico testo di riferimento per riconoscere e processare le streghe la cui immagine verrà per sempre connessa, in un imposto immaginario, a quella del demonio con il quale le donne ammettevano di celebrare riti orgiastici, stringere patti, e ottenere poteri. L’opera del Wier, di difendere le donne accusate di stregoneria, non si svolse senza intralci e pericoli personali corsi dallo stesso Wier. Messi i suoi libri all’indice, e accusato egli stesso di eresia, scampò al rogo grazie alla posizione di prestigio da lui rivestita alla corte di Guglielmo III. La concezione del sabba espressa dal Wier, forma di immaginazione e ottenebramento dei sensi, andava contro il pensiero diffuso nella popolazione dell’epoca e fomentato dalla Santa Inquisizione.

Da medico razionalista, Wier riconduceva ogni fenomeno —noi oggi diremmo morale o comportamentale- a cause patologiche meramente naturali. I cosiddetti eventi inspiegabili, trovano, secondo Wier, la loro spiegazione in condizioni fisiche abnormi. Concezione, questa, davvero coraggiosa, se non oltraggiosa, all’epoca delle streghe, considerate delle vere e proprie complici di Satana, capaci di divorare bambini innocenti, guastare i raccolti, accoppiarsi con diavoli e altre entità maligne. Il Malleus contiene un capitolo intitolato “Le streghe che si sottomettono ai diavoli”. I due domenicani indagano la condizione femminile, per rilevare alcune peculiarità che renderebbero, a loro parare, il sesso debole —rispetto ai maschi— più incline a questo tipo di perfidie. Il Malleus sembrerebbe una fra le più monumentali opere dedicate al sentimento misogino, e l’opera del Wier una sorta di femminismo ante litteram, coinvolto nel difendere la dignità e la vita stessa delle donne sofferenti accusate di stregoneria. Uno fra i più accreditati e potenti detrattori del suo pensiero, fu Jean Bodin. Prendendo le mosse dal rapporto che, da discepolo, Wier ebbe col sommo maestro Agrippa di Nettesheim, da più parti sospettato di stregoneria, dedicò gran parte della sua Démonomanie alla “refutation des opinions de Jean Wier”. Nella sua requisitoria, Bodin imputa Wier di confondere la teologia con la medicina, peccando così di empietà. Reputa inoltre Wier un cattivo medico, perché le sue teorie sul morbo melanconico sono erronee. Accusa Wier anche di essere digiuno di diritto, perché confonde il perdono della colpa con l’abolizione della pena (il rogo). Recenti studi di psicologia hanno dimostrato che, durante un interrogatorio, tramite sottili mezzi di persuasione, si può indurre l’interrogato a confessare ciò che gli viene suggerito dallo stesso inquisitore. Di fronte al potere di chi inquisisce, nulla valgono la volontà dell’inquisito, e le verità sulla propria innocenza seppellite nel suo animo. Il potere dell’inquisitore si manifesta anche con una forza persuasiva che fa ammettere all’inquisito colpe mai commesse. Molte streghe, povere donne di paese, esseri emarginati e bizzarri, furono arse vive nei secoli per atrocità confessate sotto gli effetti della tortura e della persuasione della Santa Inquisizione. Le principali torture, erano la tortura della corda, la garrotta, la ruota, la frusta, la lapidazione, la forca dell’eretico, gli stivali, l’impalazione. La più comune, restava la tortura della corda. Era una delle torture più semplici, e quindi più praticate. Da una trave pendeva una corda. La vittima veniva lasciata cadere coi polsi legati dietro la schiena, da una certa altezza, producendole slogature alle braccia e alle spalle. Fra tutte, la più crudele delle torture era la forca dell’eretico, uno strumento che veniva conficcato nello sterno e sotto il mento, con le estremità acuminate, così da bloccare all’accusata ogni movimento, permettendole solo di sussurrare le proprie confessioni. Solo nel XVII secolo ci si rese conto che non potevano essere veritiere confessioni fatte sotto tortura. In epoca illuministica si fece strada un’interpretazione razionale della leggenda, con Girolamo Tartarotti che nel 1749 spiegò il volo delle streghe come un’allucinazione provocata dal demonio, o Ludovico Antonio Muratori che nel 1745 affermò che le streghe sono solo donne malate psichicamente. Ipotesi successive vorrebbero che l’unguento di cui le streghe si cospargevano fosse una sostanza allucinogena.

Uno storico locale, Abele De Blasio, riferì che nell’archivio arcivescovile di Benevento erano conservati circa 200 verbali di processi per stregoneria, in buona parte distrutti nel 1860 per evitare di conservare documenti che potessero infiammare ulteriormente le tendenze anticlericali che accompagnarono l’epoca dell’unificazione italiana. Un’altra parte è andata persa a causa dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale.

E il noce? Non è dato sapere come nacque il noce, come crebbe e si fortificò, come fu distrutto, come e dove rinacque, eterno simbolo di libertà e liberazione. Certo è che lo spirito di tutte le donne/janare/streghe ripudiate e uccise aleggia a Benevento, città femminile, di Iside, delle immagini eteree e affascinati create dalla nebbia tra i due fiumi, l’umidità avvolge come liquido amniotico, portatore di vita, e alzando lo sguardo, le colline della Bella dormiente del Sannio distesa gentilmente a circondare e proteggere la città, abbracciano, raccolgono i pianti antichi, consolano e custodiscono tra le fronde dei noci, sussurri e incanti. Si narra che la Janara entri in casa come il vento. Ti accorgi della sua visita, perché una invisibile mano gelida ti carezza il viso! Se una Janara ti visita una volta, dopo ritorna. Tornerà sempre, sino a quando non la riuscirai a vedere in faccia e a dirle: “Vieni domani a prendere il sale”. Se si nominavano le janare in un discorso, si scongiurava il malaugurio con la frase «Oggi è sabato». Nei luoghi dove storia e credenza popolare sono elementi così fortemente intrecciati fra di loro, dove le streghe ancora non si sa se esistano o siano frutto di fantasticherie, si può ancora trovare chi, andando a dormire, chiuda finestre e porta, ma non per paura dei ladri. Il freddo scorrere del fiume sembra portare verso di noi, dalle lontananze dei secoli, le voci di quelle streghe che si riunivano attorno al noce. Ma forse è solo il vento che soffia nella notte. Un semplice fenomeno fisico, semplice e naturale. In certe contrade, ci sono ancora anziani contadini che possono raccontare di aver visto l’ombra sfuggente di una janara, in notti come questa. Per loro il vento gelido del fiume è naturale come la presenza della janara. Fantasia? Realtà?

Canti melodiosi
si spandono nell’aria
allargano il cerchio del suono
che vibra incessante
tra fronde di noci.

Danzano
al ritmo frenetico
del tempo
gioiose Janare
vestite dai raggi di luna.

Il suono di Pan il verso intona
al nuovo sabba che mette le ali
nuove comete vanno spedite
conquistano i sogni
di bimbi dormienti
tra arcane paure mutano in seno
terrore in torrone
a donare sereno.

Volteggiano alte
a radunare raggi di stelle
per cucire vesti di polvere d’oro
al giorno nuovo ormai tinto d’aurora.

Svanisce il lor canto
sul far del mattino
e si ritorna alla stanca quiete
dove i sogni dei grandi son spenti.

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