Sant’Antonio Abate


Si festeggia il 17 gennaio. “Il fuoco di Sant’Antonio” Sant’Antonio Abate essendo padrone del fuoco, è stato considerato guaritore dell’herpes zoster, chiamato “fuoco di Sant’ Antonio”. Nella notte tra il 16 e il 17 gennaio, si faceva festa, bruciando grandi cataste di legna, dette, appunto i “falò di Sant’Antonio” le cui ceneri, chiuse in sacchetti tenuti nelle tasche degli abiti servivano come amuleti: tenevano lontano le malattie e le persone portatrici di guai. Nella tradizione popolare è affiancato a Mauro (15 gennaio) e Marcello (16 gennaio), come “mercante della neve” a indicare che siamo ormai in inverno, che è tempo di uccidere il maiale, che tra poco inizia il Carnevale, che bisogna dare fondo alle riserve di carne e grasso prima di affrontare i digiuni della Quaresima. In passato era una delle feste più sentite e festeggiate, un po’ come tutte quelle che cadono in questo periodo. Forse perché d’inverno non si lavorava nei campi e si aveva più tempo per stare assieme e ogni occasione era buona per far baldoria o forse perché erano ancora vive le antiche tradizioni pagane propiziatorie. “Sant’Antoni del purcell” o “Sant’Antuoni” per distinguerlo da quell’altro Sant’Antonio da Padova, difatti il nostro Sant’Antonio è sempre raffigurato con un maialino accanto, forse a ricordo della sua resistenza alle tentazioni cui il demonio lo sottopose o forse a ricordo di un animale guarito. Qualcuno suppone che in tempi antichi al posto del maiale ci fosse un cinghiale, a suffragare l’ipotesi che Sant’Antonio Abate sia la trasposizione cristiana del Dio celtico Lug, raffigurato appunto con un cinghiale in braccio, ipotesi che trova riscontro nel dipinto del Pisaniello del 1445 “Apparizione della Madonna ai santi Antonio Abate e Giorgio” conservato alla National Gallery di Londra, in cui Sant’Antonio Abate ha ai suoi piedi proprio un cinghiale. Sant’Antonio Abate nacque nel 250-251 a Coma, in Egitto e trascorse la sua vita in solitudine, a lavorare e pregare, dapprima nei pressi della sua città natale, poi nel deserto dove visse in un’antica tomba scavata nella roccia. Ritenuto uno dei fondatori del monachesimo orientale, morì all’età di 105 anni nel suo eremo del monte Qolzoum, vicino al Mar Rosso. Le sue reliquie vennero trasportate ad Alessandria, poi a Costantinopoli, alla Motte-Saint-Didier in Francia nell’XI secolo ed infine a Saint-Julien presso Arles, dove si venerano tuttora. Pare che all’epoca della traslazione delle spoglie del santo eremita in terra di Francia, si siano verificate delle guarigioni miracolose da una delle tante epidemie di “fuoco sacro”. L’ignis sacer dell’epoca era l’ergotismo, una malattia che portava alla cancrena gli arti, con dolori atroci, e imputabile a un’inquinamento della farina di segala.

Lo stesso termine venne in seguito usato per indicare tutte quelle affezioni erpetiche, frotte di ammalati si recavano sulla tomba di Sant’Antonio implorando la guarigione e per accoglierli fu ben presto necessario costruire un ospedale, gestito dagli Ospitalieri di Sant’Antonio, gli Antoniani, un ordine di infermieri e frati laici, che erano soliti curare le piaghe provocate dall’herpes zoster (“fuoco di sant’antonio”) o lenire le sofferenze dovute all’ergotismo                                                                                                                          applicando del grasso di maiale, come emolliente, da qui la raffigurazione del maialino accanto a Sant’Antonio. Molte e diverse le tradizioni di devozione legate a questo santo che è diventato patrono del bestiame, dei porcai, dei macellai, dei salumieri, dei fornai, dei tosatori, dei fabbricanti e commercianti di tessuti, dei guantai, dei fabbricanti di spazzole, dei becchini, dei campanari, degli agricoltori, dei fabbri, dei maniscalchi, degli eremiti…. E ovviamente dei pompieri. Si invocava Sant’Antonio Abate contro le malattie della pelle come lo scorbuto, la peste, la scabbia, il prurito, i foruncoli, il “fuoco di Sant’Antonio”, gli incendi e per ritrovare oggetti smarriti “Sant’Antonio dalla barba bianca famm trovà quel ca me manca”. Un’unica tradizione accomuna però tutti i festeggiamenti: il falò. Ovunque, la festa di Sant’Antonio Abate si conclude con l’accensione di un bel falò: in cui buttare oggetti vecchi, biglietti con il nome dell’amato e dell’amata o semplicemente osservare l’innalzarsi delle fiamme e trarre da esse auspici per la primavera che incalza. Il fuoco, elemento purificatore, elemento beneaugurante, elemento propiziatorio, in grado di sconfiggere il male e le malattie scatenando energie positive, tanto che ceneri del falò di Sant’Antonio venivano conservate e usate per curare e scongiurare malattie degli uomini e del bestiame e per preservare le colture. La festa intorno ai falò, rappresenta un segnale della voglia d’incontrarsi, di essere comunità, di condividere riti antichi e tradizioni consolidate. Sant’Antonio Abate aveva liberato il Sud dalla peste, e dopo la peste per estinguere il morbo c’è bisogno che i vestiti e tutte le cose vadano al rogo. Proteggendo gli animali, rigenerando gli uomini. La festa di Sant’Antonio Abate è un simbolo dell’Italia, della matrice comune tra paesi e popoli del rettangolo basso di Mediterraneo. Segna anche l’inizio del periodo selvaggio e furente del Carnevale “Sant’Antuone, macher’ e suone”: per raccogliere fondi per il nuovo Carnevale, questue mascherate e musicate girano le contrade, si riscalderanno presso un focarone di tappa in tappa. Sant’Antonio Abate e l’eterogeneo, pazzo, spontaneo, inelegante Carnevale meridionale restano i veri momenti di unione e libertà che insopprimibili permangono.

Attualmente questa tradizione è molto sentita e si possono vedere dei bei grandi falò nella frazione Castello, nella frazione Ferrari e nel parcheggio antistante la Pro Loco in Via Macello 2


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