Trekking


La traversata del Partenio di Giustino Fortunato

La partenza


Eravamo in quattro alle 9 di sera dell’8 giugno, nel treno che va a Roma: il d’Arbo, il Meuricoffre, il Parisio e io; tutti e quattro della sezione alpina napoletana, diretti al Partenio la vigilia della Pentecoste. Un’ora dopo, dalla stazione di Cancello partivamo in carrozza per val caudina, che risalimmo lentissima a un bel chiaro di luna. Spirava una brezza penetrante, tutt’altro che primaverile, che nostro malgrado ci tenne desti e loquaci fino a Trescine, frazione principale di Cervinara, dove giungemmo alle due della mattina. Quivi il sindaco del Comune ci faceva aspettare da tre guide, che furono alla prova le migliori ch’io abbia conosciuto per l’Appennino; e un suo amico che con esso aveva atteso il nostro arrivo, ci condusse gentilmente nel casino, e offrendoci del caffè , ci diede utili ragguagli su la gita. Poche volte in simili occasioni, mi toccò tanta squisita cortesia di accoglienza: poche volte mi andò così al cuore l’augurio del buon viaggio. Alle 3 in punto, al farsi dell’alba, c’incamminammo per il Vallone delle Fontanelle, al sommo del quale volgemmo a manca sul Colle dell’Ariella, da cui salendo d’un fiato per la costa coperta di castagni e risonante d’usignoli, salutammo un po’ prima che arrivassimo a Topp’Alto, il sol nascente su la piana di Puglia. Alle 5 eravamo tra i pascoli di Valle Stretta, a cavaliere dell’opposto versante di Avella. Traversata la conca paludosa di Cisterna, che nel verno è tutta un lago, girammo per Piano di Lauro, dietro le spalle settentrionali della catena e , presso le sorgenti dell’Acquafredda, facemmo di pieno accordo una mezz’ora di sosta ristoratrice. Non più tardi delle 7 cominciammo l’ascensione dell’erta ombreggiata, da cui cima, scalando le creste ingombre di fitte macchie, toccammo, finalmente, poco dopo le 9, la vetta dell’Acerone. L’occhio corse rapido alla volta di Napoli: ma peccato! La nebbia copriva in parte la gran massa bianca di Partenope, che protende voluttuosa le braccia al mare di Zaffiro. Peccato! La caligine chiudeva l’orizzonte e spandeva dinnanzi a noi come un velo immobile e trasparente di valori.

La meditazione e il riposo


A’ piedi ci si apriva nudo e deserto il campo di Summonte, dalle chine verdeggianti smaltate di nivei asfodilli, e di faccia grave nell’aspetto a guisa d’isolato promontorio, ci si ergeva distinto il bastione di Montevergine, che toglieva alla vista tanta parte del panorama. Su le ondulate bassure di levante non un gruppo di casupole, non un segno di coltura che fosse a noi segno di vita: mentre che su la gran distesa occidentale, là da Nola a Napoli, i campi a scacchi delle messi mature davano l’immagine d’una città sola e sterminata, d’una grande città fantastica, piena di seduzioni e di mollezze. Un non so quale torpore s’impadronì presto di noi: non il più lieve alito spirava sotto l’immensa volta del cielo. Gruppi di farfalline da’ tenui colori ci aleggiavano intorno; le pieridi bianchissime,le piccole arginnidi cilestri, le belle doroti da’ riflessi giallognoli aliavano vaghissime a due a due, innamorate farfalle, così come l’aura leggera del mattino le menava dalle valli infocate su in cima al Partenio. Non un fremito, non un soffio, nessuno di quegli accordi misteriosi, nessuna di quelle voci indefinite, che non si sa donde vengano e che compongono la stupenda sinfonia della natura, rompeva in quell’ora solenne il silenzio della montagna. Mi stesi a terra quasi in dormiveglia; a poco a poco mi parve laggiù intravedere piagge lucenti, giardini fioriti, ville incantate, e splendermi all’intorno tutta una festa di colori. Chiusi gli occhi e, senza volerlo, mi addormentai. La natura, dice un poeta, ispira il silenzio del sonno.

La ripartenza


Per buona sorte, le guide furono più vigili sentinelle. Allo scoccare delle 10, grazie alla loro diligenza, ripigliammo il cammino su per le creste che digradano a scirocco; e scesi al Varco dell’Incoronata, fiancheggiammo di buon passo le falde inferiori della montagna di Summonte, sino alla Forcella di Ospedaletto. Quivi un quarto d’ora prima del mezzogiorno, ricominciammo faticosamente ad ascendere per l’erboso e sdrucciolo pendio della Cesina, e carponi arrivammo a Montevergine. Là in alto, non senza rammarico mi volsi a mirare un’ultima volta la muraglia, slanciata del Partenio; ché, piegando ormai lungo il dosso, ci cacciammo a malincuore in una macchia intricatissima di faggi, i quali tagliati alla ceppa, ributtavano folti e floridi i nuovi rampolli. Fu la sola ora cattiva, l’ora dispettosa della gita. Ma separando e diradando a tutta furia, con le mani e con i gomiti, il folto pruneto, ne venni a capo al più presto su la viottola che mena diritta al Santuario. I miei compagni non furono così avventurati. Smarrita ogni traccia nella boscaglia, presero addirittura per l’erto pendio verso la punta di Mercogliano.

L'indemoniata e il panorama


Erano da poco battute le due alla torre campanari, quando entrai nell’atrio del convento, ancora sudicio per la baldoria e la gran folla della giornata. Fortunatamente gli ultimi pellegrini erano partiti un’ora innanzi. Restava un capannello di laceri contadini sotto la porta a sesto acuto del tempio; e da esso moveva a intervalli una lugubre cantilena commista al sordo e confuso vociare degli astanti. M’avvicinai. Era, mi fu detto, l’indemoniata: una vecchia deforme e istupidita che gridava dondolando il capo. La reggeva il marito singhiozzando e picchiandosi il petto ed ecco giungere ansante un borghese, cui tutti fanno largo ad esclamare: “Ho qui il permesso, l’Abate acconsente!”. E corse in sagrestia, donde uscì poco dopo, al seguito di quattro monaci vestiti di bianco con ceri e crocifisso. Penetrammo nella chiesa nella Cappella miracolosa e più volte un monaco ripeté ad alta voce gli esorcismi. Ma tornata vana ogni sacra invocazione a scacciare il diavolo, l’esito infelice scandalizzò le donne , fece disperare il marito stizzì tutti. Quella scena mi aveva ispirato un profondo sentimento di commiserazione. Andai all’aperto, sul loggiato, e respirai a larghi polmoni la brezza vespertina. Dio che bellezza di valli! Che maestà di monti in quel meriggio luminoso e tranquillo! Tutto l’immenso paesaggio era libero d’ogni velo di nebbia azzurrina, di ogni sottile sfumatura di vapori: giù, tutta la pianura di Avellino, a nocelleti e a vigneti da’ villaggi sparsi e rosseggianti; di fronte, tutto il versante settentrionale del Terminio, che si spingeva libero e glorioso agli splendori della luce occidua. Basta il Terminio come premio d’una passeggiata sul Partenio. Non v’ha opera dell’uomo che valga quella veduta!

La tappa finale


Alle 5 riprendemmo la discesa per Ospedaletto Alpinolo, nella cui piazza pittoresca adorna d’un tiglio secolare, fummo cortesemente ricevuti dai notabili del Comune. E affrettando il passo per le scorciatoie alle 9, dopo una corsa di più che venti miglia in montagna, entrammo nell’albergo di Avellino.

La traversata del Partenio


Il percorso parte dalla sede Comunale di Cervinara, attraversa un bellissimo bosco di castagni, giunge a Piano di Lauro (pianoro carsico nelle cui vicinanze vi è la fonte Acquafredda), sale a Croce di Puntone, passa per Porca delle Pere e dopo vari saliscendi giunge ai Monti di Avella, da cui di ammira tutto il Golfo di Napoli, il Vesuvio e i Monti Lattari.

Scende a Toppa Riviezzo, ove dalla sommità di un ripetitore si può ammirare un paesaggio mozzafiato sul Vallo di Lauro e sul Golfo di Castellammare, e prosegue per Sopra l’Arenella e Forcetelle, per poi risalire a Cupitelle, da cui inizia la discesa per il Santuario di Montevergine.

Da qui sul sentiero dei Pellegrini si giunge a Ospedaletto d’Alpinolo e si prosegue per i Pennini e Via Tagliamento per concludere la Traversata a Piazza d’Armi.

foto Francesco Viola

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