Mestieri


ANTICHI MESTIERI CERVINARESI

L’ACQUAIUOLO:

Da un vocabolario di antica data: “Colui che va vendendo l’acqua o la trasporta a pago”. L’acquaiuolo era, quindi, il venditore girovago di diverse tipologie di acqua da bere, contenute in  damigianelle adagiate in ceste di vimini e trasportate su un carretto di fortuna trainato a mano o con l’aiuto di un paziente somarello. Annunciava la sua presenza gridando: “Acquaiuooolo” oppure : “Chi vo vevere! Fredda, fredda! Chi veve!”. In genere l’acquisto avveniva direttamente dal balcone: la casalinga di turno, dopo essersi accordata sul prezzo, calava il “panariello” contenente i soldi e la fiaschetta da riempire. Il mestiere dell’acquaiuolo, a differenza di quanto potrebbe credersi, non era tipicamente estivo, meramente connesso all’arsura delle gole; come recita una poesia di Catello Esposito Sansone quella dell’acquaiuolo era “’na voce ca  sentevo tutt’e matine, si chiuveva o nce steva ‘o sole, ‘a sentevo ‘e passà sempe. Era ‘na voce ca t’accumpagnava tutt’’e juorne. M’affacciavo p’abbitudine e ‘a scena, era sempe ‘a stessa. Nu’ ciucciariello affannato, ‘na carretta vecchia chiena, chiena ‘e tammiggiane r’acqua, scorze ‘e limone e n’ommo ca reva ‘a voce: Acquaiuoo…, acquaiuolo, chi veve ?!”. Premesso ciò, è anche vero che i nostri nonni avevano più probabilità di incontrare il venditore di acqua soprattutto durante le feste patronali estive: dopo la lunga processione dietro alla statua del Santo portato a spalla dagli uomini più forti o più devoti, non vi era maggior sollievo che bere un bicchiere di fresca acqua e limone offerto dall’acquaiuolo. I napoletani e i cilentani di un tempo ricordano anche la versione più “stanziale” dell’acquaiuolo: l’acquafrescaio. Egli lavorava su un banco di marmo ornato da limoni e da grandi boccali pieni d’acqua. Legato alla figura dell’acquaiuolo anche il detto popolare: “Acquaiuò, comm’è l’acqua? Manco ‘a neve…”, utilizzato per sottolineare la retoricità di una richiesta. Arriva l’acquaiuolo con il suo carico di cristallina bonta’. Offre sorsi di fresco benessere, impareggiabili istanti di ventilata oasi nell’afosa giornata cervinarese. Sono i dispensatori delle rinomate acque sorgive. L’acquaiuolo ha con sé un orciuolo contenente la preziosa e fondamentale bevanda e un vassoio zeppo di bicchieri, adagiato su di un tridente. Indossa una camicia dal vago ricordo di immacolatezza ed un paio di logori pantaloni. Un cappello di paglia copre la testa. Giunge in ogni angolo di Cervinara, richiama l’attenzione con il suo caratteristico grido. È consapevole che, goccia dopo goccia, richiamo dopo richiamo; “Acqua, ne commannate?”, vendera’ tutta la sua trasparente mercanzia.

O FERRACIUCCI:

Vedere oggi passare un cavallo per le nostre strade intasate di macchine, camioncini e motori è diventata una cosa rarissima. Per far vedere ai nostri figli com’è un cavallo dobbiamo portarli allo zoo, o al circo o all’ippodromo.
Ormai è finita un’epoca. Però è bene ricordare come, un tempo, fra uomo e animale ci fosse un rapporto oserei dire di amicizia, di affetto. Moltissime, allora, erano le famiglie che avevano la stalla attaccata all’abitazione o addirittura all’interno di essa. Moltissimi erano quelli che lasciavano i traìni, le carrozze, i carretti nei vari cortili o negli slarghi del paese. Nelle campagne, per i diversi lavori, per il trasporto delle merci i quadrupedi equini, sono stati sostituiti lentamente da motozappe meccaniche, da motori “APE”, da “FIORINI”. Ormai è diventato molto raro vedere un cavallo tirare l’aratro, un asino tirare la trainella, un mulo tirare un carretto. Il maniscalco o “ferraciucci” era un vero specialista, che, oltre a costruire e ad applicare gli zoccoli agli animali doveva avere una vasta conoscenza sulla loro anatomia, sui loro diversi comportamenti, sul modo di operare durante la ferratura.

La parola, di difficile comprensione, trae origine dal latino medioevale “mariscalcus” e dal franco “marh skalk” che significa: servo, “skalk”, e addetto ai cavalli, “marh”. Tanti e tanti anni fa quello del ferracavalli era un lavoro molto richiesto. Già dalla mattina presto si sentiva battere ritmicamente il martello. Questo rumore faceva capire che “lu ferraciucci” stava dando alle staffe la dimensione degli zoccoli. Spesso si avvertiva nell’aria quell’odore acre degli zoccoli bruciati dal ferro rovente che veniva applicato su di essi. “Lu ferracavalli” lavorava curvo, dietro il deretano dell’animale, ma, anche se era preso dal lavoro, stava molto attento a balzare di lato appena notava un minimo movimento, ed evitare qualche calcione che ogni tanto l’animale dava graduitamente, fuori programma. Questo avveniva molto spesso nei giorni di maggio; l’animale, incalorito da una subitanea urgenza d’amore, si scatenava in mezzo alle persone. Fuori dalla sua bottega, egli metteva un ferro di cavallo, non per scaramanzia, ma come insegna. Forse, se ci fosse oggi, metterebbe un’insegna luminosa con la scritta “SCARPE PER GLI ANIMALI”, ma ha acquisito per lo più una valenza scaramantica, purché lo si appenda con le punte rivolte verso l’alto, per evitare che la fortuna “scappi fuori”…! In realtà già gli antichi Romani inchiodavano alle pareti di casa ferri di cavallo come difesa dalla peste e persino i cristiani credevano nella potenza di questo amuleto in quanto la sua forma ricordava la lettera “C” di Cristo. I “più esperti” sostengono che per portare veramente fortuna, il ferro di cavallo dev’essere trovato per strada e poi appeso sull’uscio di casa. La tradizione nasce nei tempi in cui un’estrema povertà divideva le categorie di uomini: il ricco cavaliere che viaggiava a cavallo ed il povero appiedato. Il cavaliere sfrecciava davanti al tugurio del contadino coperto dal suo splendido mantello, speroni e corazza. Il contadino lo ammirava dal basso, coperto di polvere e fango. Quando il cavallo perdeva il ferro, il cavaliere era costretto a fermarsi ed il povero accorreva servizievole e spesso rimediava qualche moneta in cambio dell’aiuto prestato.

Il maniscalco è purtroppo un mestiere che è finito con l’arrivo delle macchine sofisticate del XX secolo. Questo racconto che stiamo per mettere sulla carta rispecchia la realtà di una volta, quando v’era rispetto per il prossimo e si viveva appunto un po’ più da cristiani. Una volta il mestiere del “ferraciuccio” era importante, come adesso sono importanti le macchine e tutti i mezzi meccanici di trasporto e di lavoro. In passato i cavalli, gli asini, i muli e le vacche dovevano essere ferrati, per non consumare le unghie che erano importanti per le bestie. I principali attrezzi usati erano le tenaglie, il braciere, la forgia, la piastra, la forchetta, le pinze, il punteruolo, la paletta da taglio, l’incudine, martello e chiodi speciali che non facevano male all’unghia delle bestie. La bottega era sempre nera e polverosa perché tutto il giorno teneva i carboni accesi sulle forge aiutandosi con un mantice (in genere azionato da ragazzini). Questi sprigionavano, com’è ovvio, tanta fuliggine che si depositava sui muri e sotto il soffitto. Il ferraciucci, di solito, oltre che mettere le i ferri agli zoccoli dei cavalli, costruiva anche arnesi in ferro come zappe, vanghe, spatole e simili. Quando l’animale, portato dal cliente per essere ferrato, arrivava “a capezza” dal “ferraciuccio”, lo legavano al muro dove stava appositamente un “rotiello” innestato su una pietra murata. Così “o ferraciuccio” gli alzava il piede e gli toglieva il ferro vecchio, puliva bene l’unghia con la “roina” tagliente, e dopo averla ben pulita, applicava il ferro nuovo con chiodi lunghi che sporgevano ai lati della zampa dell’animale; poi li torceva e li limava con la raspa e la lima. Certe volte gli animali facevano dei capricci; allora si ricorreva ad un arnese chiamato “storci – musso” per farli stare forzatamente fermi. Poi si passava al “caruso”. Con una macchinetta si rasavano tutti quei peli fuori posto, creando nell’animale un benessere fisico anche per gli eventuali fastidi creati dalle mosche e dagli insetti. Ormai siamo passati ad un’altra epoca, in cui i mestieri artigianali sono quasi del tutto scomparsi, mentre cresce l’arroganza, il disordine, ed aumenta per tutti i giovani lo spettro della disoccupazione. Una volta le cose erano un po’ diverse, quando i figli seguivano le orme dei genitori nel mestiere e sul lavoro. I “ferra ciucci” erano stimati ed apprezzati in paese, tanto quanto basta per degnamente ricordarli.

‘O ‘MBRELLARO:

L’ombrellaio era una figura tipicamente autunnale e invernale. In genere indossava giacca e cappello neri, pantaloni di foggia militare e scarpe grandi e robuste da camminatore. Lo si vedeva girare per le strade con l’arrivo delle prime piogge, invitando le donne ad affidargli un parapioggia da riparare. Parapioggia, spesso, tartassato da mille acquazzoni, dissestato dal vento, rosicchiato dalle tarme, consunto ma conservato, poiché le finanze erano talmente scarse da non poter neanche pensare all’acquisto di un nuovo ombrello. L’ombrellaio recava con sé un’attrezzatura costituita da pinze, filo di ferro, stecche di ricambio, ritagli di stoffe, aghi, spaghi di vario genere, forbici. Il tutto riposto in una cassetta di legno sulla quale sedeva durante il lavoro che non era né facile, né breve.
Egli arrangiava sulla tela o aggiustandola o cambiandola del tutto; armeggiava con la pinza sui pezzi metallici e sul manico finché l’ombrello non tornava a funzionare come prima. A volte cuciva il telo o addirittura lo cambiava, il filo di ferro nelle sue mani sembrava cotone e la pinza sembrava un ago capace di infilare il filo di ferro ovunque. Alla fine del lavoro l’ombrello era più funzionante e resistente di prima.

La struttura dell”ombrello era facile da incepparsi all’altezza del collano o dell’anello di scorrimento. Quante volte è capitato che una raffica di vento ha rovesciato la cupola di un ombrello e sconnesso qualche stecca, che abbiamo fatto? L’abbiamo buttato, Ovvio!  Un tempo mica si buttava nella spazzatura quest’oggetto! Le non buone condizioni economiche impedivano che in casa si potessero avere tanti ombrelli, uno a testa, o più; poi la mentalità del tempo di non buttare via nulla e non distruggere quello che poteva ancora servire permetteva a questo mestiere di sopravvivere. “O’ mbrellaro” girava per il paese a piedi o in bicicletta alla ricerca di eventuali clienti, di tanto in tanto bussava alla porta di qualche famiglia o gridava: “O’ mbrellar – O’ mbrellar”.

‘O ‘MMOLAFUORFICI:

“Mmolafuorfici” sta per “Arrotino”, artigiano che si occupava della molatura o affilatura delle lame. Mestiere antichissimo, nato in epoche in cui non esisteva il consumismo e far arrotare, anziché gettar via, un coltello non più tagliente era la prassi. Quest’uomo si aggirava per le strade con una bicicletta poi, con la lambretta. Ma andiamo con ordine; il lavoro orginariamente era svolto con un trabiccolo a ruota, molto pesante e ingombrante, originariamente veniva svolto con una sorta di  biciclo-carretto dotato di una grossa ruota di legno, rivestita da un cerchione di ferro collegato ad una impalcatura in legno ed una ruota più piccola di pietra abrasiva di circa 30 cm., sulla quale si molavano i diversi attrezzi di ferro. Nella parte di sotto c’era un pedale che serviva per azionare l’attrezzo. Per svolgere il lavoro di molatura l’operatore sollevava il trabiccolo su un cavalletto di legno, collegava le due ruote con una cinghia di cuoio e dopo iniziava a  pedalare dando un lento, ma continuo movimento, permettendo così alle due ruote di girare. Il carretto veniva poi ribaltato su sé stesso per trasformarlo nello strumento di lavoro. Alla ruota veniva agganciato un pedale con vari snodi, veniva fissata la cinghia di trasmissione del movimento alla mola e, su una parte sporgente del carretto, l’arrotino fissava un secchiello con dell’acqua che sgocciolava sulla mola mediante un piccolo e rudimentale rubinetto ricavato da un pezzetto di legno tenero, per evitare che la lama diventasse molto calda. Per arrotare un utensile, l’arrotino imprimeva alla ruota un movimento ben ritmato e continuo e vi appoggiava con forza la lama. Ultimamente l’arrotino gira la città con un’automobile nel cui vano portabagagli vi sono una o più mole collegata all’albero di trasmissione e altre cose che possono servire per il proprio lavoro. I coltelli, le accette, le roncole, le forbici e tutti i vari attrezzi da taglio che venivano affidati “o’mmolafuorfici” erano affilati come rasoi. Iniziò ad andare in giro e a muoversi più liberamente, con l’avvento della mitica lambretta. In genere l’arrotino passava per le strade due volte all’anno: in primavera e in autunno, e trascorreva la notte nella stalla della casa ove aveva esercitato il suo mestiere. Un‘importante luogo d’origine degli arrotini è il Molise, da cui dovrebbero provenire quelli che girano in automobile con gli altoparlanti. Con l’era industriale e il boom economico, infatti, questo mestiere, a differenza di altri di antiche origini, continua ad essere praticato, seppur da poche persone, con l’ausilio dell’autovettura. Ad esempio, nella Capitale della metà degli anni ’70, non era raro incontrare arrotini a bordo di Fiat 500 modificate in modo che al motore fosse collegata una puleggia che metteva in rotazione la mola; l’arrotino non doveva far altro che aprire il vano motore per servire il cliente. Questo aspetto permette agli arrotini di proporsi per rimettere a nuovo, oltre ai classici coltelli, praticamente ogni tipo di lama come forbici di grandi o piccole dimensioni o prodotti d’acciaio come le forbici da seta (molto più difficili da arrotare e per le quali serve una mola molto veloce e una smerigliatrice) o dal filo particolarmente sottile come i coltelli da prosciutto.  Le forbici del sarto o delle domestiche, i coltelli, il forbicino e tutto ciò che poteva essere tagliente in casa, passava tra le sue mani.

Una simpatica curiosità legata alla figura dello ‘mmolafuorfici concerne lo slogan con il quale oggi annuncia il suo passaggio: “È arrivato l’arrotino. Arrota coltelli, forbici, forbicine, forbici da seta, coltelli da prosciutto! Donne, è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio; aggiustiamo gli ombrelli; l’ombrellaio, donne! Ripariamo cucine a gas: abbiamo i pezzi di ricambio per le cucine a gas. Se avete perdite di gas noi le aggiustiamo, se la cucina fa fumo noi togliamo il fumo della vostra cucina a gas. Lavoro subito, immediato. È arrivato l’arrotino!” Esso, o le sue varianti più brevi (“Donne, è arrivato l’arrotino! Arrotiamo pinze, forbici, coltelli da prosciutto! Donne è arrivato l’arrotino e l’ombrellaio! Se la vostra cucina fa fumo, noi togliamo il fumo dalla vostra cucina a gas. È arrivato l’arrotino!”) è esattamente lo stesso in tutta Italia, registrato su nastro e trasmesso attraverso un altoparlante montato sull’automobile. Per Cervinara non è raro sentir passare l’auto dell’arrotino, e lo slogan è esattamente lo stesso. Questo messaggio pubblicitario è ormai così diffuso che la prontissima comunità del web l’ha messo a disposizione in versione download per le suonerie dei cellulari! È simpatico precisare, infine, che in Italia esiste pure un associazione di categoria degli arrotini: l’ Aaec (Associazione arrotini e coltellerie), costituita nel marzo del 1998.

‘O ‘MPAGLIASEGGE:

La fabbricazione manuale delle sedie rappresentava una vera e propria arte. Essa era diffusa soprattutto nei paesi montani, data la maggiore facilità a reperire le materie prime: il legno, soprattutto di faggio, e i giunchi di paglia. Questi ultimi costituivano la seduta che si otteneva arrotolando gli esili giunchi essiccati con la dovuta abilità (anche per evitare dolorosi tagli) ed intrecciandoli tra loro partendo dai bordi della sedia fino ad arrivare al centro della stessa. L’artigiano delle “sedie” era detto, appunto, “mpagliasegge”. Egli le realizzava e, cosa ancora più importante data l’impossibilità di acquistarne delle nuove, le riparava per un modico prezzo. Girava per tutto il paese con la carretta trainata dal “ciucciariello” o lo si vedeva girare per il paese a piedi, con la bisaccia a tracolla piena di giunchi di diversi colori, degli attrezzi necessari al compimento del lavoro e magari anche con un paio di sedie sulle spalle. Ottenuto il lavoro si sedeva sui gradini e dava inizio alla sua opera certosina, magari accompagnandola canticchiando, a volte se il caso era grave, se la portava via la sedia rotta per poi riportarla dopo qualche giorno. A seconda delle richieste, l’artigiano ‘mpagliava anche le spalliere delle sedie e dava del colore alla seduta. “‘O ‘mpagliasegge”, inoltre, impagliava pure bottiglie, damigiane ecc. allo scopo di proteggerne il vetro. Ancora oggi qualcuno conserva nelle proprie cantine la classica “fiaschetta” avvolta da paglia. Le sedie impagliate con i giunchi sfilacciati erano anche simbolo di condizioni economiche difficili. A dimostrazione di ciò basti ricordare l’esilarante scena de “…una sedia al marchesino…” del film di Totò “Miseria e nobiltà”. Ancora oggi molte famiglie preferiscono avere in  cucina “le segge ‘mpagliate” perché oltre a dare un tono diverso sono anche più comode. C’è solo che, se oggi si dovesse rompere, “‘O ‘mpagliasegge” è un po’ difficile trovarlo.

‘O SCARPARO:

Lo “scarparo” era il fabbricante di scarpe. Il termine deriva dall’iberico escarpa con l’aggiunta di un suffisso di attinenza arius (aro) di reminescenza latina.  Chi si occupava della normale manutenzione o sostituzione di alcune parti della scarpa era, invece, il “solachianiello”, etimologicamente derivante dall’addizione del verbo sola (ind. pres. 3° p. sing. di suolare) con il sostantivo chianiello, maschile ricostruito d’una originaria chianella = pantofola, da un latino planus, diminutivo femminilizzato attraverso il suffisso: ella. Nel caso di realizzazione di un paio di scarpe su misura, lo scarparo inizialmente definiva la sagoma del plantare, poi prendeva con una cordicella la circonferenza del collo del piede e la sua lunghezza. Gli arnesi necessari erano: le lesine, i trincetti, le tenaglie, i martelli e le numerosissime forme di legno. A questi si aggiungevano le setole, gli spaghi, la pece, la cera, la colla. Dopo aver preso le misure necessarie ed aver concordato la forma e il colore del pellame, l’artigiano provvedeva alla tagliatura e alla cucitura ed iniziava il lavoro fissando alla parte inferiore della stessa forma la soletta interna delle scarpe. Aggiungeva, infine, la tomaia che doveva essere ben tesa ed unita alla soletta con dei piccoli chiodi. La scarpa era considerata un vero capolavoro quando dimostrava la flessibilità, la leggerezza e la cucitura a mano. Il solachianiello, invece, per lo più  lavorava in una piccola stanzetta e con attrezzature molto precarie tra le quali non potevano mancare un piccolo banchetto, un contenitore con dell’acqua per ammorbidire i pezzi di cuoio, forme di legno e degli attrezzi in ferro utili per sostituire i tacchi. Nella devozione popolare napoletana, ma non solo, i martiri San Crispino e suo fratello Crispiniano sono ritenuti santi protettori dei calzolai e, solo estensivamente, dei ciabattini. Essi erano di nobili origini romane. Convertitisi al cristianesimo si trasferirono in Francia per diffondere il Vangelo, adattandosi, per sopravvivere, a lavorar di notte facendo i calzolai. Durante la persecuzione di Diocleziano trovarono il martirio, a fil di spada furono uccisi in Gallia, intorno al III sec. d.c.. Rammentiamo una curiosità e cioè che una tradizione veneta,contrariamente a quella partenopea, non menziona San Crispiniano mentre lega la figura di Crispino al vino ed ai bevitori di vino, (ottobre – la festa dei due santi cade il 25 ottobre – è il periodo in cui si fa l’operazione della svinatura) ed inoltre si storpia il nome in Graspin (affine a graspo = grappolo) facendolo diventare il patrono degli ubriachi.

Cominciamo a coglierne le parole e/o le espressioni interessanti;

– Suglia, bisecolo, martiello: sono tre tipici strumenti di lavoro del ciabattino e precisamente nell’ordine: suglia o lesina, lisciatoio, martello; suglia è esattamente la lesina, strumento appuntito atto a forare il cuoio e a far passare con l’ausilio di un’asola, presente quasi sulla punta, lo spago impeciato, usato per cucire la suola della scarpa. Etimologicamente la parola suglia è dal latino subula(m)>subla(m) con la tipica mutazione di bl in gli, come ad es. neglia da nebula(m)>nebla(m) = nebbia etc.

Bisecolo: è propriamente il lisciapiante di legno di bosso o di metallo, che serve a levigare e lucidare le suole e i tacchi; in toscano è reso con il termine bussetto d’etimo incerto, mentre il napoletano bisecolo etimologicamente dal francese besaigue, composto di bes-‘bi-‘ e aiguè ‘acuto’ in quanto arnese provviso di un doppio taglio laterale, atto a togliere eventuali asperità al cuoio e renderlo levigato e lucido;

Martiello: è ovviamente il martello, etimologicamente da un tardo latino martellu(m), variante del classico martulus o marculus, dim. di marcus ‘martello’. Quello dei ciabattini e scarpai si differenzia da tutti gli altri martelli per aver la testa battente rotonda e poco ampia e non a forma di parallelepipedo, mentre il cuneo opposto alla testa è liscio e senza incavi (come invece capita nei martelli da fabbro e falegname) per tirar via i chiodi;

Accuncià: propriamente aggiustare, ripristinare, ma anche acconciare, condire; va da sé che nella poesia il verbo va inteso nelle prime due accezioni, sebbene etimologicamente esso derivi da un latino ad+conciare denominale di un basso latino comptium = preparazione da riportare al comere= cum- emereprendere con, assumere;

‘na pareglia ‘e meze cape: letteralmente un paio di scarpe basse piuttosto consunte e logore; pareglia = coppia, paio etimologicamente dallo spagnolo pareja, da far risalire al latino par/paris; meze cape= come ò detto si tratta di scarpe basse, ma è voce ironica da riallacciare al termine capezza=cavezza dal latino capitìa, briglia della testa; essendo la scarpa una sorta di briglia del piede, ironicamente è una mezza capezza e quindi meza capa;

Forma: ecco un altro tipico strumento di lavoro del calzolaio, ciabattino; è quel rigido modello di legno usato per montare e sostenere il tomaio e la suola di una scarpa in fabbricazione o riparazione;

Guardiuncielle: una delle parti del tomaio (o tomaia che è la parte superiore della calzatura, in pelle o tessuto, che cucita alla sottostante suola forma la scarpa; etimologicamente la parola tomaio/a è dal greco tomaìos= tagliato o da un tomàri=pezzo di cuoio) della scarpa e precisamente i tramezzi laterali che chiudono il tomaio intorno al piede, tramezzi cuciti tra suola e tomaio a sostegno e messo quasi a guardia (donde il nome) della consistenza laterale della scarpa; anche in veneziano il medesimo tramezzo è chiamato guàrdolo o guardióne e non fa meraviglia il fatto che sia napoletani che veneziani abbiano potuto forgiare i loro termini su di un portoghese guardia o uno spagnolo guarda; in fondo sia napoletani che veneziani furono grandi marinai e naviganti ed entrarono in contatto con numerose nazioni rivierasche;

Puntette: precisamente piccole punte; infatti un tempo ‘a puntetta fu un piccolo rinforzo metallico a forma di mezza luna inchiodato alla punta della suola e dunque della scarpa per proteggere la punta medesima da eccessive sollecitazioni durante la deambulazione e perciò da probabile veloce logoramento di quella parte della suola. Va da sé che la puntetta, etimologicamente diminutivo di punta che è da un tardo latino puncta(m) deverbale di pungere, non è applicata a scarpa nuova, ma a quella già consunta e logora, nel tentativo di ripristinarne la saldezza iniziale;

Chiuove: che sono ovviamente i chiodi, barrette metalliche di varie forme e dimensioni, generalmente appuntite ad un’estremità e con una testa più o meno larga all’altra, che serve a unire fra loro parti di metallo, legno o altro materiale; etimologia latina da clavu(m).

‘O LUTAMMARO:

Questo mestiere, oggi improponibile, era quasi sempre di sesso maschile. Quest’umile lavoratore di costituzione robusta ed olfatto tollerante di umilissime origini e scarso intelletto era alquanto diffuso nelle campagne, quando veniva fatto un uso abituale di animali da traino (adatti per lavorare le vaste campagne), e di cavalli ed asini (utilizzati per il trasporto e la circolazione nelle strade cittadine). Il “lutammaro” raccoglieva per strada, stalle e masserie gli escrementi degli animali ed in particolare la cosiddetta “lutamma” (termine indicante la paglia infradiciata sotto gli “animali da stalla” mescolata con l’urina e lo stesso sterco), per rivenderla a basso costo, come concime ai contadini. Spesso il “lutammaro” veniva anche in città, attratto dai luoghi dove stazionavano le carrozzelle, dai mercati generali e dai mercatini rionali dove sostavano carrette trainate da cavalli ed asini che rappresentavano per lui un’ottima fonte di guadagno.  L’evoluzione sociale, la tecnologia e soprattutto l’odierno utilizzo di concimi artificiali, hanno letteralmente estinto questo poverissimo e degradante mestiere.

SORBETTIERE:

Questo venditore ambulante specialista in sorbetti, spesso di sesso maschile, è solito avanzare nella calura estiva con un secchio da pozzo per lavare bicchieri, un parabicchieri a scompartimenti, un recipiente di legno con la neve per raffreddare la pasta aromatizzata contenuta nella subbrettera: un cilindro di stagno con il coperchio argenteo.
Il sorbetto, preparato ad arte, viene offerto con la punta ritta, come un cono rovesciato: al culmine e sui fianchi della gelida montagnella i sorbettieri più creativi aggiungono, specie quando si trovano a prepararlo a stranieri, striature di sciroppo rosso per rappresentare il Vesuvio in eruzione. Il sorbettiere è solito indossare un farsetto, un grembiule pulito (bianco) ed un cappello di paglia per ripararsi dal sole. Tra i suoi attrezzi una dozzina di bottiglie con sciroppi di vari colori e spesso una brocca per la limonata.

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